Nasce “Il Foglio AI”, il primo quotidiano scritto dall’AI

Il quotidiano “Il Foglio” lancia una sfida innovativa: dal 18 marzo, per un mese, in edicola arriverà un’edizione interamente realizzata con intelligenza artificiale. Come riportato da Primaonline, l’iniziativa, annunciata dal direttore Claudio Cerasa, segna un primato globale: nessun altro giornale ha mai sperimentato un’AI in grado di scrivere articoli, titoli, catenacci e persino ironizzare sui fatti del giorno. Un progetto ambizioso che metterà alla prova il ruolo della tecnologia nel giornalismo e la capacità dell’AI di trasformare la teoria in pratica concreta. “Un altro Foglio, un nuovo Foglio, fatto con un’intelligenza diversa”, spiega Cerasa, sottolineando come il giornale affronterà un mese di sperimentazione in cui i giornalisti porranno le domande e il Foglio AI fornirà le risposte. L’obiettivo è testare l’impatto dell’intelligenza artificiale sul lavoro redazionale e sulle dinamiche quotidiane della redazione. Il quotidiano, composto da quattro pagine, conterrà ventidue articoli e tre editoriali e, secondo il direttore, sarà ancora più ottimista dell’edizione tradizionale, capace anche di entrare in polemica con la linea del giornale stesso. L’esperimento non si limiterà a verificare la funzionalità della tecnologia, ma porrà anche domande più profonde sulla natura del giornalismo e sul futuro della scrittura. Cosa significa affidare l’informazione a un’intelligenza non umana? Può l’AI garantire lo stesso livello di analisi critica e profondità di pensiero dei giornalisti in carne e ossa? Alla fine del mese, il team del Foglio tirerà le somme e analizzerà l’impatto dell’AI sulla produzione giornalistica e sul rapporto con i lettori. Il Foglio AI uscirà ogni giorno dal martedì al venerdì, dando vita a un’inedita collaborazione tra uomo e macchina. Un esperimento che promette di sollevare riflessioni su un futuro in cui l’intelligenza artificiale non sarà più solo un’ipotesi teorica, ma una realtà tangibile nell’ecosistema mediatico. Se l’iniziativa suscita curiosità o perplessità, i lettori potranno esprimere opinioni e suggerimenti scrivendo a lettere@ilfoglio.it. (In copertina, Claudio Cerasa)
Trump, la guerra alla “follia woke” e la censura: la lista nera delle parole che vanno abolite

Donald Trump, da sempre sostenitore della libertà d’espressione, si trova ora al centro di un evidente paradosso: mentre proclama la sua battaglia contro la censura, impone drastiche restrizioni sul linguaggio utilizzato nelle agenzie federali americane. Primaonline riporta che, secondo un’inchiesta del New York Times, numerose parole e concetti sono stati eliminati dai documenti ufficiali, dai siti web governativi e dalle linee guida interne, creando una vera e propria lista di termini proibiti. Tra questi si trovano riferimenti all’identità di genere, alla diversità, all’equità e all’inclusione, ma anche espressioni legate all’ambiente, alla giustizia sociale e ai diritti delle minoranze. L’ossessione di Trump per la lotta contro quella che definisce la “follia woke” si traduce in una vera e propria epurazione lessicale, con la volontà di cancellare dall’apparato statale ogni riferimento a tematiche che possano richiamare il progressismo. La parola “transgender”, ad esempio, è stata rimossa, così come “women” e “LGBTQ+”. Anche termini come “cambiamento climatico”, “patrimonio culturale”, “pregiudizi” e persino “discorsi d’odio” sono stati banditi. Una delle decisioni più discusse riguarda la cancellazione del nome “Enola Gay” da documenti ufficiali e foto del Pentagono, per via del termine “gay” presente nel nome del bombardiere che sganciò l’atomica su Hiroshima. La campagna di Trump si estende anche oltre la censura linguistica. Il presidente ha ordinato la sospensione di celebrazioni come il Martin Luther King Day, il Giorno della Memoria e il Pride Month, eliminando qualsiasi riferimento alla diversità, equità e inclusione nei luoghi di lavoro federali. Questa politica ha conseguenze tangibili non solo nel linguaggio istituzionale, ma anche nella vita accademica e scientifica: molte università e enti di ricerca temono la perdita di finanziamenti e si stanno adeguando al nuovo corso. Perfino la NASA ha eliminato dal proprio sito le informazioni sulle donne nel campo STEM, mentre interi dipartimenti di studi di genere, clima e migrazioni stanno chiudendo. L’amministrazione Trump giustifica queste misure come una reazione alla cancel culture, ma in realtà sta praticando una forma selettiva della stessa strategia, eliminando dal dibattito pubblico ogni voce contraria alla sua visione conservatrice. La scelta delle parole proibite non è casuale: riflette una chiara volontà di riscrivere la narrazione sociale e politica degli Stati Uniti, plasmando il linguaggio in modo da eliminare concetti scomodi. Le parole hanno potere e, come sottolinea il New York Times, questa epurazione linguistica è uno specchio delle priorità ideologiche dell’amministrazione. Il caso americano ha anche un’eco internazionale, con paralleli inquietanti. In Argentina, il presidente Javier Milei, sostenitore di una crociata contro il politicamente corretto, ha reintrodotto nel linguaggio istituzionale termini offensivi come “imbecille”, “ritardato” e “idiota” per riferirsi alle persone con disabilità intellettive, oltre a voler eliminare il concetto di femminicidio dal Codice penale. Trump e Milei condividono una visione del mondo in cui il linguaggio deve essere uno strumento di potere e controllo, piuttosto che un mezzo per rappresentare la complessità della realtà. Non è un caso che anche Elon Musk, alleato di Trump, abbia recentemente emulato il leader argentino, brandendo una motosega come simbolo di questa battaglia culturale. Le implicazioni di questa censura vanno oltre la semplice scelta di parole. Eliminare termini come “etnia”, “discriminazione” o “disparità di genere” non cambia la realtà, ma impedisce di affrontarla apertamente, con conseguenze concrete sulla ricerca, sulla politica sociale e sul dibattito pubblico. L’effetto è un arretramento del discorso democratico, in cui la libertà di espressione viene sacrificata sull’altare di una narrativa ideologica sempre più ristretta e autoritaria.
Il Washington Post riorganizza la sua redazione e separa stampa dal digitale

Il Washington Post sta attraversando una fase di profonda trasformazione sotto la guida del direttore esecutivo Matt Murray, con l’obiettivo di ampliare la copertura mediatica e raggiungere un pubblico più vasto. Le modifiche alla struttura redazionale seguono una serie di dimissioni di alto profilo e i cambiamenti voluti dal proprietario Jeff Bezos nella sezione delle opinioni. Una delle partenze più rilevanti è quella della storica editorialista Ruth Marcus, che ha lasciato il giornale dopo la rimozione della sua rubrica critica nei confronti delle nuove politiche editoriali. Anche l’ex direttore esecutivo Marty Baron ha espresso preoccupazione per la direzione intrapresa dal quotidiano. Nell’ambito della riorganizzazione, la redazione nazionale verrà suddivisa in due sezioni distinte: una dedicata al giornalismo nazionale e un’altra focalizzata sulla politica e il governo. Il team economico e di politica economica confluirà in quest’ultima, mentre il desk nazionale si occuperà di temi chiave negli Stati Uniti, con un focus specifico su istruzione, politica locale e dinamiche sociali. Al tempo stesso, i team di economia, tecnologia, salute, scienza e clima saranno accorpati in un nuovo dipartimento per analizzare l’evoluzione dell’economia, l’impatto delle innovazioni tecnologiche e le conseguenze dei cambiamenti climatici sulla vita quotidiana. Per gestire questa riorganizzazione, verranno nominati nuovi capi dipartimento, e l’obiettivo è rendere operativi i cambiamenti entro il 5 maggio. Parallelamente, la strategia editoriale punta a dare maggiore rilevanza ai prodotti digitali, con un team dedicato alla crescita del pubblico e un altro agli aspetti visivi. Murray ha inoltre annunciato l’assunzione di un responsabile della stampa per separare il formato cartaceo dalla produzione digitale, riducendo il peso della lunghezza degli articoli come parametro di qualità. Queste modifiche riflettono una più ampia necessità di rinnovamento del Washington Post, che da anni affronta un calo di profitti e lettori. L’introduzione di una “terza redazione“, denominata WP Ventures, segna un ulteriore passo in questa direzione, concentrandosi su video, audio, newsletter e social engagement. Murray ha riconosciuto che i cambiamenti potrebbero non essere apprezzati da tutti, ma ha sottolineato la necessità di una trasformazione per garantire il futuro del giornale.
Nuovo look per Repubblica: più pagine e approfondimenti, ma il prezzo sale a 1,90€

La Repubblica cambia volto: un restyling che non è solo estetico, ma un rinnovamento profondo della sua identità. La nuova veste grafica, curata dall’art director Angelo Rinaldi con Francesco Franchi, ridefinisce l’equilibrio tra testo e immagini, valorizzando la lettura e rendendo l’informazione più chiara e accessibile. La grafica non è apparenza, ma sostanza: un linguaggio visivo che si evolve con i tempi e rafforza il legame con i lettori. Il giornale amplia la sua offerta informativa con più pagine, più notizie, più approfondimenti e una maggiore attenzione ai temi economici e finanziari, con un approccio divulgativo. La serializzazione, marchio di fabbrica di Repubblica, si arricchisce ulteriormente per offrire analisi sempre più approfondite e contestualizzate. Il sito web, leader nel panorama digitale, diventa ancora più coerente con la versione cartacea, garantendo una navigazione fluida tra le due dimensioni dell’informazione. Da oggi, il prezzo del quotidiano passa da 1,70 a 1,90 euro, un adeguamento necessario per sostenere un giornalismo di qualità, indipendente e rigoroso. Cresce anche l’attenzione per l’informazione locale, con edizioni dedicate alle principali città italiane, e si rafforza il legame con i settimanali, i mensili e i supplementi che arricchiscono l’offerta editoriale. In un contesto globale segnato da sfide epocali, Repubblica conferma la sua posizione chiara e indipendente. La battaglia contro populismi e sovranismi è prima di tutto culturale, in un momento di crisi della rappresentanza politica. La guerra in Ucraina, le tensioni in Medio Oriente e le trasformazioni negli Stati Uniti pongono interrogativi cruciali sul futuro dell’Europa. Per questo, la proposta di Michele Serra di una manifestazione con sole bandiere europee, in programma il 15 marzo a Roma, ha già raccolto migliaia di adesioni. L’apertura al pluralismo rimane un valore fondante del giornale: voci e opinioni diverse trovano spazio, ma sempre nel segno di una linea editoriale netta e riconoscibile. Essere indipendenti non significa essere neutrali: Repubblica continuerà a prendere posizione sui temi cruciali, offrendo un’informazione autorevole, approfondita e capace di interpretare la realtà. Il restyling non è solo un cambio di grafica, ma il segno tangibile di un impegno costante nell’evoluzione del giornalismo. Come spiegato nell’editoriale di Mario Orfeo, pubblicato oggi in prima pagina, il giornale cambia perché è parte integrante della società, non solo un suo specchio. L’aumento del prezzo è una scelta sofferta ma necessaria per garantire un’informazione di qualità, così come il potenziamento delle pagine di approfondimento e il rafforzamento del dibattito pubblico su temi cruciali. Repubblica conferma il suo impegno nel raccontare i cambiamenti del mondo con indipendenza, chiarezza e profondità.
NewsGuard: 302 fake news in tre anni di guerra in Ucraina

A tre anni dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, la disinformazione ha assunto proporzioni sempre maggiori, con la diffusione di 302 fake news su oltre 500 piattaforme. Questo fenomeno è stato accompagnato da un crescente utilizzo dell’intelligenza artificiale, che ha reso le notizie manipolate ancora più convincenti. Secondo il monitoraggio di NewsGuard, il database Misinformation Fingerprints ha registrato un’evoluzione nelle tattiche di propaganda. Nei primi mesi di guerra, la narrazione della propaganda russa si concentrava sull’accusa di una presunta diffusione del nazismo in Ucraina. Col passare del tempo, però, la strategia si è spostata su altri temi, come la corruzione del governo ucraino, il presunto calo del sostegno politico a Zelensky e l’inefficacia dell’aiuto economico occidentale destinato al Paese. Dal febbraio 2022, le modalità di diffusione della disinformazione si sono trasformate, evidenziando una crescita nell’impiego dell’intelligenza artificiale. Nel primo anno di conflitto, NewsGuard ha smentito 112 fake news, di cui solo una generata da AI. Nel secondo anno, il numero è sceso a 71, con cinque casi di manipolazione artificiale, mentre nel terzo anno sono state individuate 119 notizie false, con 16 episodi di contenuti creati attraverso AI. Uno dei primi deepfake scoperti nel marzo 2022 mostrava un discorso falsificato di Zelensky, nel quale il presidente esortava gli ucraini alla resa. Inoltre, l’intelligenza artificiale è stata impiegata da fonti filo-Cremlino per creare articoli fasulli attribuiti a testate internazionali come BBC, CNN e Bloomberg News, con l’obiettivo di diffondere notizie ingannevoli. Dal 2022 a oggi, NewsGuard ha identificato 44 narrazioni false diffuse da siti che imitavano fonti autorevoli, 24 delle quali emerse nell’ultimo anno. La crescente sofisticazione dell’intelligenza artificiale nella disinformazione rende sempre più difficile distinguere tra verità e manipolazione, condizionando la percezione del conflitto in Ucraina.
Spionaggio sui giornalisti: Fnsi e Odg denunciano il caso Paragon

La Federazione nazionale della Stampa italiana e l’Ordine nazionale dei giornalisti hanno presentato una denuncia contro ignoti alla Procura di Roma per fare luce sullo spionaggio ai danni di giornalisti tramite lo spyware Graphite di Paragon. L’iniziativa, annunciata in conferenza stampa il 19 febbraio 2025, vuole ottenere risposte su chi abbia autorizzato l’uso di questa tecnologia e con quale finalità. La segretaria generale della Fnsi, Alessandra Costante, ha sottolineato come questa vicenda rappresenti una violazione del codice penale e della Costituzione, che sancisce la libertà di stampa. Al suo fianco erano presenti il presidente della Fnsi Vittorio di Trapani, il presidente dell’Ordine dei giornalisti Carlo Bartoli, la segretaria del Cnog Paola Spadari e l’avvocato Giulio Vasaturo, che fornisce supporto legale. Bartoli ha denunciato l’assenza di chiarezza da parte del governo, che dopo venti giorni di silenzi e versioni contrastanti non ha ancora fornito risposte adeguate. Ha ricordato che Graphite non è un software accessibile a chiunque, ma viene utilizzato solo da soggetti specifici. Mancano ancora due elementi fondamentali per ricostruire il caso: chi ha effettuato lo spionaggio e perché. Di Trapani ha ribadito l’urgenza di ottenere risposte e ha escluso la possibilità di invocare il segreto di Stato per vicende che riguardano la libertà di informazione. Ha inoltre evidenziato che l’Unione Europea, con il Media Freedom Act, vieta la sorveglianza sui giornalisti, tutelando il diritto all’informazione dei cittadini. L’inchiesta ha coinvolto anche Luca Casarini, capomissione di Mediterranea Saving Humans, il cui telefono è stato attaccato da Graphite già nel febbraio 2024. La Ong ha rivelato che l’operazione era parte di una strategia di sorveglianza più ampia, condotta con tecniche di social engineering per colpire anche persone vicine alla vittima. Citizen Lab, che ha collaborato alle indagini, ha sottolineato la gravità della situazione, avvertendo che un attacco di questa portata implica il coinvolgimento di soggetti governativi. Nel frattempo, il governo italiano ha evitato di rispondere alle interrogazioni parlamentari sul caso, suscitando l’indignazione delle opposizioni. Il sottosegretario Alfredo Mantovano ha dichiarato che sono già state fornite le uniche informazioni divulgabili, ma l’interruzione del contratto tra Paragon e l’Italia solleva dubbi sulla gestione della vicenda. Fnsi e Odg chiedono ora a tutti i giornalisti che hanno ricevuto messaggi sospetti di segnalarli per integrare la denuncia e ampliare l’indagine, con l’obiettivo di garantire trasparenza e difendere i principi democratici. (In foto, un momento della conferenza stampa)
“Fratelli di chat” sotto accusa per privacy violata

Il Garante della Privacy ha inviato un avvertimento ufficiale alla Società Editoriale Il Fatto SPA, editrice del Fatto Quotidiano, in merito alla pubblicazione del libro “Fratelli di chat“. Questo volume contiene trascrizioni di conversazioni private tra esponenti di Fratelli d’Italia, tra cui parlamentari e ministri. Secondo il Garante, la pubblicazione di queste chat potrebbe violare la normativa sulla privacy e i principi fondamentali del giornalismo, mettendo a rischio la riservatezza delle persone coinvolte. L’Autorità ha sottolineato che la Costituzione italiana protegge la corrispondenza privata attraverso gli articoli 15 e 68. Ciò significa che le conversazioni tra politici, anche se di interesse pubblico, non possono essere diffuse liberamente senza rispettare determinate regole. Inoltre, il Garante ha evidenziato che nel libro potrebbero esserci riferimenti a terzi e addirittura a minorenni, la cui privacy deve essere tutelata in modo particolare. L’avvertimento arriva dopo le proteste di diversi esponenti di Fratelli d’Italia, che hanno criticato la pubblicazione delle loro chat. Alcuni di loro hanno ipotizzato azioni legali, accusando gli autori del libro di aver selezionato solo alcune parti delle conversazioni e di averle riportate in modo parziale o distorto. Inoltre, il partito ha annunciato che i suoi avvocati stanno valutando il caso anche dal punto di vista penale e civile, ipotizzando richieste di risarcimento danni. Fino a che punto la libertà di stampa può spingersi nel pubblicare informazioni riservate? Da un lato, i giornalisti hanno il dovere di informare il pubblico su questioni di interesse generale, specialmente quando coinvolgono rappresentanti politici. Dall’altro, esistono leggi sulla privacy che proteggono le comunicazioni private, anche quando riguardano persone con ruoli pubblici.
Trump schernisce “Time” dopo la cover con Elon Musk: “Esiste ancora?”

La nuova copertina del Time ha provocato un acceso dibattito sulla politica americana e il ruolo sempre più influente di Elon Musk. Lo sfondo rosso, le aquile, le stelle e strisce, e soprattutto la sua figura seduta alla Resolute Desk nella Casa Bianca, evocano immagini di potere e controllo. Il titolo è eloquente: “Dentro la guerra di Elon Musk contro Washington”. Un’affermazione che rispecchia perfettamente il clima politico attuale, in cui il miliardario ha assunto un ruolo di primo piano. Da tempo Elon Musk non è più soltanto un imprenditore visionario: la sua alleanza con Donald Trump durante la campagna elettorale lo ha catapultato al centro del dibattito politico. Ha finanziato il Tycoon, si è mostrato pubblicamente al suo fianco, ha indossato il cappellino MAGA, e ha festeggiato con lui a Mar-a-Lago. Questo sostegno ha portato a una ricompensa senza precedenti: la creazione di un nuovo dipartimento governativo, il Doge (Dipartimento per l’Efficienza Governativa), con Musk alla guida. Mai prima d’ora un cittadino privato, per di più miliardario con aziende supervisionate dalle autorità federali, aveva avuto un simile potere all’interno del governo. Il Doge ha una missione apparentemente impossibile: ridurre la spesa pubblica di 2 milioni di miliardi di dollari, abbattere la burocrazia, eliminare regolamenti considerati superflui e ristrutturare le agenzie federali. Tuttavia, l’ambizioso piano sta incontrando ostacoli significativi. Donald Trump potrebbe aver sottovalutato la determinazione di Elon Musk, che non sembra disposto a farsi fermare da niente e nessuno. Il 1° febbraio il team Doge Musk ha preteso l’accesso totale alla sede centrale dell’USAID, l’agenzia governativa che si occupa di aiuti umanitari e sviluppo internazionale. Lo staff dell’agenzia si è opposto, provocando la reazione furiosa del miliardario. Su X ha scritto parole pesantissime: “L’USAID è un’organizzazione criminale”. E poi, in un secondo post, ancora più duro: “È ora che muoia”. Le conseguenze sono state immediate. In meno di una settimana, quasi tutto il personale dell’USAID è stato messo in congedo, gli uffici in tutto il mondo sono stati chiusi, interrompendo operazioni vitali per milioni di persone. Un chiaro segnale a tutte le altre agenzie federali: la volontà di Musk non va contrastata. L’episodio, come sottolinea il Time, mette in luce uno scontro epocale tra il potere istituzionale consolidato e l’approccio radicale del team di Musk, definito “squadra di demolitori politici”. Ma la domanda più inquietante rimane: “Chi c’è davvero dietro al Resolute Desk?”. La provocatoria copertina arriva in un momento in cui Elon Musk gode di un’influenza senza precedenti. Non è un caso che il Time lo abbia già nominato Persona dell’Anno per la seconda volta. Un riconoscimento che stride con la reazione sarcastica di Donald Trump, il quale, durante una conferenza con il primo ministro giapponese, ha commentato: “No, non ho visto la copertina. Time esiste ancora?”. Salvo poi correggere il tiro e lodare il lavoro del suo alleato: “Sta facendo un ottimo lavoro”.
Trump, Musk e Netanyahu: i media italiani cadono in un fake IA

La mattina del 4 febbraio 2025, numerose testate italiane come Ansa, RaiNews, La Stampa, la Repubblica e Fanpage hanno pubblicato una foto che ritrae il premier israeliano Benjamin Netanyahu insieme al presidente statunitense Donald Trump e al suo braccio destro Elon Musk. L’immagine è stata successivamente ripresa anche dal TG1, TG2 e TG3, rafforzando l’idea che fosse una testimonianza visiva dell’incontro tra Netanyahu e Trump alla Casa Bianca per discutere della guerra tra Israele e Palestina e delle relazioni bilaterali tra i due paesi. Tuttavia, emerge un problema cruciale: la foto non è autentica ma frutto dell’intelligenza artificiale. I media italiani l’hanno diffusa come se fosse reale, senza verificare la sua origine. La creazione dell’immagine è da attribuire a un profilo su X chiamato “George Orwell” (@OrwellTruth1984), che ha condiviso l’elaborazione digitale il 3 febbraio 2025 accompagnata da un breve testo in ebraico. Fin da subito, l’utente ha chiarito che si trattava di un’immagine generata con IA, ma nonostante ciò, ha iniziato a circolare senza il necessario contesto. Un dettaglio importante è che l’immagine originale riportava il nome utente di @OrwellTruth1984, segnalando la sua provenienza. Tuttavia, una volta diffusa, questa informazione è stata rimossa, alimentando la percezione che fosse una foto reale. Resosi conto della situazione, l’autore ha pubblicato un secondo post per ribadire che si trattava di un’elaborazione creata con software di intelligenza artificiale. Nonostante questa smentita, molti media hanno continuato a trattare l’immagine come una prova concreta dell’incontro.
Cento giornalisti spiati su WhatsApp, anche il direttore di Fanpage

Quasi 100 giornalisti e altri membri della società civile sono stati presi di mira da uno spyware sviluppato da Paragon Solutions, un’azienda israeliana specializzata in software di hacking. L’attacco ha coinvolto utenti di WhatsApp, con l’obiettivo di accedere ai loro dati personali e professionali. Secondo quanto riferito dalla popolare applicazione di messaggistica, vi è un’”elevata certezza” che almeno 90 utenti siano stati compromessi, con i loro dispositivi infettati senza che se ne rendessero conto. Tra le vittime vi è anche Francesco Cancellato, direttore del quotidiano Fanpage.it, il quale ha ricevuto una notifica da WhatsApp Support che lo informava della possibile violazione del suo dispositivo. Secondo quanto riportato dalla testata, il messaggio affermava che l’attacco era stato interrotto da WhatsApp, ma che era probabile che il dispositivo fosse stato compromesso. Di conseguenza, sono state avviate indagini per comprendere l’entità del danno subito e verificare quali informazioni siano state effettivamente sottratte. WhatsApp ha scoperto e bloccato l’attacco a dicembre, ma solo di recente ha avvisato le vittime. Il messaggio inviato a giornalisti e attivisti spiegava che lo spyware poteva accedere ai loro dati, come messaggi e file. WhatsApp ha avviato azioni legali contro Paragon Solutions per fermare l’uso del software dannoso e proteggere gli utenti. Non si sa chi abbia ordinato l’attacco, ma il fatto che il software sia venduto a governi fa pensare a motivi politici o di sorveglianza. Meta, la società madre di WhatsApp, ha dichiarato che continuerà a lavorare per identificare e contrastare le minacce informatiche rivolte ai suoi utenti, collaborando con esperti di sicurezza e autorità competenti per garantire una maggiore protezione dei dati.